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La ricorrenza dell’otto marzo non costituisca un appezzamento di terra assegnato all’altra metà del cielo per l’insediamento esclusivo delle donne rimosse da settori importanti della vita associata, ma possa al contrario costituire l’occasione per fare il punto sul processo di affermazione di una classe dirigente femminile anche nella nostra comunità. Il nostro paese non ha brillato in questi sessantacinque anni di vita repubblicana per avere costruito strumenti utili a valorizzare le capacità femminili nella società in modo compatibile con i ruoli di madre e di moglie. Lo dimostrano alcuni indicatori: a) la presenza di parlamentari è passata dal 6% del 1946 ad appena il 21% dell’attuale legislatura, peraltro quella con il maggior numero di donne; b) l’Italia è al penultimo posto in Europa per madri lavoratrici, con una percentuale che si riduce molto di più che negli altri paesi all’aumento del numero di figli; c) i consigli di amministrazione delle imprese quotate in borsa prevedono in altri paesi europei una presenza percentuale, che va grosso modo dal 10 al 42%, di donne, mentre in Italia ancora non è stata approvata in merito alcuna legge. Solo alcuni esempi di un trend che al di là dei colori politici cangianti al governo italiano degli ultimi diciassette anni, si è mantenuto piuttosto stabile rispetto all’azione intrapresa in altri Stati. Non si comprende, di fondo, che partecipare al processo di costruzione di una classe dirigente femminile sia un investimento e non una riduzione di opportunità per il genere maschile.
Nella nostra comunità provinciale, non tutti i settori della vita associata testimoniano una distanza così marcata tra uomo e donna al vertice delle rispettive strutture: penso al Prefetto di Siracusa, alla Sovrintendente, a molte direttrici dei musei, a due dei tre direttori delle strutture carcerarie del territorio, ai tanti dirigenti scolastici nelle scuole di ogni grado, a molti dirigenti apicali negli enti locali, ivi compreso il direttore generale della Provincia. Ma nel mondo dell’impresa e all’interno delle cariche pubbliche istituzionali, la situazione appare rispecchiare lo squilibrio esistente a livello nazionale, se non addirittura rappresentare risvolti ancora più drammatici, se si pensa al numero di consiglieri presenti nell’assemblea provinciale o in quella del comune capoluogo. Rintraccio due ragioni che determinano questa disparità: da un lato, si tratta di settori della vita associata dove mediamente una maggior mole di tempo impiegato determina un maggiore successo, senza che tuttavia la società abbia costruito degli strumenti che permettano alla donna di investire questo tempo sostenuta nel suo essere madre, tant’è che a caratterizzare i processi decisionali di questi settori sono spesso orari che alimentano questo disagio; dall’altro lato, la classe dirigente maschile non coglie adeguatamente l’opportunità di nominare figure femminili, limitandosi spesso a fare il minimo indispensabile.
Il punto cruciale rimane comunque il superamento del fatto che le donne diventando madri si allontanano dalla vita lavorativa e questo va affrontato incentivando la continuità lavorativa e sostenendo la maternità. Il tessuto sociale va radicalmente ripensato quando si parla di tagli nei servizi sociali, comprendendo che anche qui si annidano i presupposti di una disparità che altrove (Olanda, Belgio, Finlandia, Francia) vede le donne riuscire ad essere contemporaneamente madri e apprezzate lavoratrici. L’otto marzo, dunque, non come occasione celebrativa, ma per interrogarci sulle scelte politiche che anche a livello locale condizionano le nostre difficoltà nella costruzione di una classe dirigente femminile.
Michele Mangiafico
Presidente del Consiglio provinciale
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